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Pubblicato martedì 27 Aprile, 2021
Anche se la finestra è la stessa, non tutti quelli che vi si affacciano vedono le stesse cose. La veduta dipende dallo sguardo. (Alda Merini)
Sarà capitato anche a te, almeno una volta nella vita, di perdere un autobus che ti è sfrecciato davanti al naso. È stato proprio quella volta che eri in ritardo perché un contrattempo stupido ti aveva trattenuto. Cosa hai pensato in quel momento? Quali sono state le sensazioni fisiche nel tuo corpo (a parte l’affanno per la corsa nel tentativo di arrivare in tempo alla fermata del bus)? Quali le emozioni? E cosa hai fatto? E come ti sei sentito dopo averlo fatto?
In queste domande c’è il cuore del Modello Cognitivo Comportamentale.
Può darsi che tu risponda “ma cosa dovrei aver provato/pensato/fatto? È ovvio che mi sia arrabbiato col mondo intero, che mi sia partita una parolaccia, che mi sia sentito impotente e sconfortato, che abbia pensato di essere la persona più sfortunata del mondo!”. Ma riflettici un attimo: è proprio vero che questa sia l’unica risposta possibile? Perché se così fosse vorrebbe dire che tutti, di fronte ad un autobus perso, reagiamo nello stesso identico modo. Ma non è così. Qualcuno avrà la giornata rovinata da quell’episodio, qualcuno con pazienza aspetterà senza grandi turbamenti l’autobus successivo, qualcun altro ne approfitterà magari per fare una passeggiata dopo aver avvisato del ritardo chi lo aspettava. Sembrano proprio storie diverse.
Non certo la situazione di partenza, che è identica per tutti.
Ecco, la terapia cognitivo comportamentale (CBT) ci propone un modello in cui la differenza la fanno i pensieri. A seconda di cosa penso, di cosa dico a me stesso, che significato attribuisco a un dato accadimento, provo certe emozioni e non altre. E cosa mi fa capire che sto provando quelle emozioni? Il mio corpo, con i suoi segnali. Ad esempio mi batte forte il cuore, sento tutti i muscoli tesi, i denti serrati: sono proprio arrabbiato! E in base a quello che provo e che penso, faccio delle cose e non altre. Se fare quelle cose mi aiuta a ridurre sensazioni sgradevoli, o mi dà soddisfazione, metterò ancora in atto, in futuro, quel comportamento, che magari potrebbe diventare una mia abitudine, una vera e propria strategia per affrontare stati psicofisici negativi.
Abbiamo delle convinzioni profonde che si sono costruite e stabilizzate nel corso della nostra vita fino al punto di generare delle vere e proprie regole di funzionamento della realtà. Sono le lenti attraverso cui guardiamo la realtà e produciamo determinati pensieri e non altri. In base a queste lenti attribuiamo inevitabilmente significati al mondo, ai fatti, alle nostre sensazioni ed emozioni, al comportamento degli altri. Ma non sempre questi significati (pensieri automatici, talmente ovvi per noi da passare inosservati) sono funzionali al nostro benessere. Possono mancare di rigore logico, possono essere poco realistici, troppo drammatizzanti, catastrofici… in poche parole, disfunzionali, quindi fonte di sofferenza e di disagio per noi e per le persone con cui entriamo in relazione.
I pensieri automatici – di cui siamo ben poco consapevoli – si attivano incessantemente e determinano le nostre emozioni. Pensieri automatici disfunzionali producono emozioni sgradevoli a cui cerchiamo di reagire adottando delle strategie di coping, ovvero comportamenti che tendono ad alleviare il disagio. Ma queste strategie sono figlie del problema, e finiscono per confermare le convinzioni di partenza, in un circolo vizioso che tiene in piedi il nostro disagio.
In questa complessa dinamica sono coinvolti aspetti cognitivi (i pensieri, le convinzioni, i significati che attribuiamo alla realtà, gli scopi che abbiamo) e comportamentali (le condotte, le strategie che adottiamo per non soffrire, le emozioni che ne scaturiscono, i meccanismi che rendono stabili certi comportamenti). Il modello cognitivo comportamentale – come denuncia la sua denominazione – rappresenta infatti l’integrazione tra i principi del modello Comportamentista (da cui derivano molte delle tecniche utilizzate e l’attenzione al metodo scientifico applicato alla clinica e alla verifica degli esiti) e del modello Cognitivista (che focalizza l’attenzione sui processi cognitivi quali determinanti dell’esperienza soggettiva).
Il modello prende le mosse negli anni ’60 dalla svolta cognitivista di Aaron Beck – che a tutt’oggi rappresenta il punto zero, la teoria cognitiva classica. Negli anni ha avuto parecchie evoluzioni, prima attraverso i contributi di Albert Ellis, e successivamente inglobando i principi del comportamentismo e il suo rigore scientifico grazie all’avvicinamento con le teorie di esponenti di questo orientamento come Stanley Rachman e Donald Meichenbaum, che dal canto loro si erano avvicinati al cognitivismo.
Nell’ottica classica di Beck, come si è visto, è ben chiara la dinamica con cui si formano i disagi psichici. É meno chiaro, invece, il processo in base al quale si formano le convinzioni profonde. Inoltre, la concentrazione sulle tecniche di intervento rischia di mettere in secondo piano l’importanza della relazione terapeutica nel processo di cambiamento, soprattutto quando il paziente – proprio a causa dei suoi problemi, che gli rendono difficile l’autoosservazione e la razionalizzazione dei propri pensieri disfunzionali – non riesce ad essere parte attiva e a collaborare efficacemente alla terapia.
Gli sviluppi più recenti del modello cognitivista si sono interrogati e hanno cercato risposte a queste criticità del modello standard.
Ad oggi si contano molti approcci che, prendendo le mosse dal cognitivismo classico, si sono diversificati tra loro perché hanno approfondito alcuni aspetti e centrato l’attenzione su altri fattori.
Tra questi, un filone molto importante di ricerca (ad opera di Giovanni Liotti e Vittorio Guidano) ha visto nella teoria dell’attaccamento di John Bowlby — sviluppata a partire da quelli che Bowlby definisce Sistemi Motivazionali (1) — un elemento di svolta, che ha permesso di spiegare in chiave interpersonale la genesi della psicopatologia anche in presenza di traumi gravi e ripetuti, e di restituire alla relazione psicoterapeuta-paziente il suo ruolo centrale nel determinare il cambiamento.
Ne deriva un nuovo modello teorico denominato Cognitivo Evoluzionista. Obiettivo della psicoterapia non è più soltanto l’individuazione delle strutture cognitive disfunzionali e la loro trattazione; il percorso terapeutico è più articolato, e attraverso lo studio dello stile che caratterizzava le relazioni precoci di attaccamento prende in considerazione le rappresentazioni mentali del paziente, e i corrispettivi di queste nelle relazioni attuali, in particolare nella relazione terapeutica. Si studiano quelli che diventano, nella storia del paziente, veri e propri schemi di relazione che, essendo basati su rappresentazioni interne disfunzionali, producono sofferenza e inabilità. Lo studio del terapeuta diventa un laboratorio dove, in ambiente protetto, il paziente può sperimentare nuove modalità di relazione che abbiano la caratteristica della base sicura descritta da Bowlby.
In questo e negli altri numerosi sviluppi che ha avuto nel corso degli anni, la CBT continua ad essere coinvolta nella ricerca e a rinnovarsi continuamente. Attualmente è l’approccio psicoterapeutico che vanta il maggior numero di studi scientifici comprovanti l’efficacia, al punto da essere ritenuta da alcuni autori (David, Cristea e Hofmann, 2018) il trattamento gold standard nel settore. Grazie alle sue basi scientifiche è riconosciuta a livello internazionale come trattamento di elezione per molti disturbi.
Le modalità di svolgimento di un percorso terapeutico cognitivo comportamentale sono agili. In genere – salvo particolari esigenze che vengono comunque valutate con il paziente – le sedute hanno una frequenza settimanale, ed è richiesta una partecipazione attiva sia in seduta che nella vita di tutti i giorni, attraverso l’assegnazione di compiti tra un incontro e l’altro col terapeuta. Questo permette al paziente di sviluppare in se stesso responsabilità e consapevolezza, e di imparare pian piano ad essere autonomo nella gestione dei suoi malesseri.
Terapeuta e paziente lavorano su obiettivi a breve, medio e lungo termine definiti insieme al termine di una prima fase di valutazione, e poi rivalutati e ricalibrati nel corso di tutta la terapia alla luce dei miglioramenti (sia percepiti dal paziente che valutati mediante somministrazione di questionari).
Quando gli obiettivi a lungo termine sono stati raggiunti o sono in via di acquisizione, si concorda una fase di follow-up, volta alla stabilizzazione dei risultati e alla conclusione della terapia. In questa fase la frequenza delle sedute diminuisce fino a terminare del tutto.
A quel punto il paziente avrà a disposizione un nuovo terapeuta: se stesso!
A.T.Beck, Principi di terapia cognitiva, 1976, Astrolabio
J.Bowlby, Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, 1989, Raffaello Cortina Editore
R.Dalle Grave (a cura di), I motivi per cui la terapia cognitivo comportamentale è l’attuale gold standard della psicoterapia, 2018, www.aidap.org
D.David, I.Cristea, & S.G.Hofmann – Why Cognitive Behavioral Therapy Is the Current Gold Standard of Psychotherapy, Frontiers in Psychiatry 2018, 9.
B.Farina, G.Liotti – L’incontro con la teoria dell’attaccamento e la svolta relazionale della psicoterapia cognitiva, PSICOBIETTIVO 2018 – Franco Angeli
M.Neenan, W.Dryden, I cento punti chiave della psicoterapia cognitiva, 2010 Erickson