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Pubblicato giovedì 28 Maggio, 2020
Concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio per cambiare quelle che posso e la saggezza per riconoscerne la differenza. (San Francesco d’Assisi)
Spesso le parole Accettazione e Rassegnazione vengono usate come sinonimi, soprattutto quando si parla della vita emotiva. Questo equivoco, apparentemente innocuo, interferisce con la nostra capacità di superare il dolore.
Vediamo perché.
L’etimologia delle due parole ci svela due significati per certi versi opposti. Vediamo cosa ci dice in proposito il Dizionario Etimologico Online:
Nell’accettazione si prende, si riceve. Nella rassegnazione si abbandona, si lascia andare.
Nella rassegnazione c’è un’idea di passività che non compare affatto nell’accettazione.
Al contrario, l’accettazione ha il significato profondo di azione, attività. Come potremmo ricevere “con gradimento”, se non attivamente?
La rassegnazione è cedimento, rinuncia. A meno che non abbiamo una visione mistica della nostra vita, non ci piace affatto l’idea di rassegnarci a qualcosa che non va per il verso giusto, cioè come noi avremmo voluto.
Quando confondiamo l’accettazione con la rassegnazione – attribuiamo cioè all’accettazione la valenza negativa di passività e di rinuncia – crediamo che esistano soltanto due alternative: rinunciare/rassegnarsi o continuare a perseguire obiettivi che si sono rivelati non realizzabili, a soffrire perché una determinata cosa è accaduta, a rimpiangere dolorosamente il passato.
Di conseguenza ci scopriamo a rimuginare, a crogiolarci nel dolore perpetuando la sofferenza nel tempo. La nostra mente si affolla di pensieri come “questa cosa non doveva accadere”; “”non lo sopporto”; “”non posso vivere così”; “perché proprio io?”.
Il risultato è che restiamo ancorati al nostro dolore, come macchinine giocattolo a batteria che nella loro traiettoria incontrano un muro e continuano a spingere perché incapaci di cambiare direzione.
C’è una terza alternativa, ed è appunto l’accettazione. Significa prendere atto della realtà e gestirla, trasformando i nostri obiettivi e/o le nostre modalità per realizzarli. Significa svolgere un’attività di analisi della nostra condizione e ridefinire in maniera adattiva ciò che ci genera dolore e sofferenza.
Intendiamoci: soffrire per la fine di un rapporto sentimentale, per la perdita di una persona cara, o del lavoro, per la diagnosi di una malattia è perfettamente fisiologico. Cominciamo a chiederci cosa c’è che non va se la sofferenza non diminuisce dopo mesi, se non si modifica, se non c’è alcuna ricerca di strade alternative.
Perché il dolore, come il lutto, si sviluppa nel tempo attraverso fasi che vanno dalla sofferenza acuta alla ricerca di soluzioni alternative e, eventualmente, all’investimento su nuovi e diversi obiettivi.
Quando si resta bloccati sulla prima fase – la sofferenza acuta – non solo si soffre moltissimo, ma ci si preclude ogni possibilità di appassionarci a qualcos’altro e di individuare nuovi obiettivi, magari raggiungibili, che distoglierebbero la nostra attenzione dal dolore e ci aprirebbero la strada a nuove esperienze e soddisfazioni.
Ma quindi la soluzione è il “chiodo scaccia chiodo? Senza dubbio NO!
Vuol dire:
Perché è tanto difficile compiere questo percorso?
Tutti abbiamo delle vulnerabilità che ci portano ad attribuire molto valore ad obiettivi non sempre realistici. Per disinvestire le nostre risorse da un obiettivo dobbiamo ridimensionare questo valore, e questo è difficile.
Pensare che gli insuccessi, le perdite, i lutti, le sconfitte fanno parte della vita, e che non ce lo ha proprio mai detto nessuno che saremmo stati esenti da queste difficoltà.
Cadere e rialzarsi, sbagliare e cambiare, tentare e riprovare: è un continuo processo di adattamento che non vuol dire appiattirsi su una realtà che non ci piace ma, al contrario, imprimere nelle pieghe di questa realtà la nostra strada.
É per questo che le persone, pur soffrendo delle avversità della vita, prima o poi finiscono per farsene una ragione e andare avanti.
Quando la sofferenza diventa un dolore costante, persistente, ostinato, si parla di sofferenza patologica e si osservano meccanismi e circoli viziosi che si accompagnano all’incapacità di accettazione e alla persistenza di credenze che alimentano l’investimento su scopi non realistici.
Sono questi i casi in cui è necessario farsi aiutare da un professionista.
Foto di Gerd Altmann da Pixabay
A.T.Beck, Principi di terapia cognitiva, Astrolabio, Roma 1988
F.Mancini, C.Perdighe, Perché si soffre? Il ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotiva, Cognitivismo Clinico (2012) 9, 2, 95-115
Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani – versione Online www.etimo.it